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Diritto fallimentare

Le consulenze del commercialista al fallimento richiedono i parametri
Martedì 15/01/2013, a cura di eDotto S.r.l

Un dottore commercialista che nell’ambito di una procedura di fallimento presta la propria consulenza ha diritto a ricevere un compenso calcolato sulla base delle tariffe professionali, oggi sostituite dai parametri, e non secondo i criteri usati per i consulenti d’ufficio (Ctu). 

A stabilirlo la Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con la ordinanza n. 730 del 14 gennaio 2013, con cui i giudici di legittimità, accogliendo il ricorso del professionista, fissano il seguente principio di diritto: “poiché l'attività svolta dal consulente di parte nell'ambito del processo ha natura squisitamente difensiva, ancorché di carattere tecnico, mirando a sottoporre al giudicante rilievi a sostegno della tesi difensiva della parte assistita, il suo espletamento è riconducibile al contratto d'opera professionale, con la conseguenza che il relativo compenso deve essere determinato sulla base delle relative tariffe professionali. Mentre non è possibile ricorrere ai criteri seguiti per la determinazione delle spettanze del consulente tecnico d'ufficio, la cui attività non si ricollega a un rapporto contrattuale.” 

Le consulenze del perito di parte rese da un professionista iscritto ad un Ordine durante un fallimento assumono, così, carattere difensivo e vanno remunerate sulla base delle tariffe professionali.


Efficacia delle norme fallimentari, Assonime individua criticità


Assonime, nella Note e Studi n. 4/2012, illustra il “rapporto sull’attuazione della riforma della legge fallimentare e sulle sue più recenti modifiche”. Il documento è il risultato della collaborazione tra Assonime e la Direzione Statistica del Ministero della Giustizia, mediante la somministrazione di un questionario rivolto a giudici delegati, curatori fallimentari e commissari giudiziali di un campione significativo di Tribunali fallimentari italiani.
Le domande hanno riguardato fallimentoconcordato preventivo e accordi di ristrutturazione dei debiti.
Scopo dell’indagine, promossa nel 2011, è stato valutare l’efficacia delle norme fallimentari riformate, verificando la rispondenza della normativa alle esigenze di soddisfazione del ceto creditorio e di recupero delle attività produttive e, conseguentemente, l’eventuale necessità di ulteriori interventi.
In particolare, Assonime – nel documento in commento – rileva che principi e regole di gestione della crisi d’impresa e delle sue modalità di gestione sono state riviste negli ultimi anni.
Si parte dalla riforma delle procedure concorsuali, attuata nel biennio 2005-2007, che ha “modernizzato” la disciplina generale garantendo speditezza del procedimento, conservazione dei mezzi produttivi dell’impresa e liquidazioni più efficienti. Nella prospettiva di offrire, poi, procedure alternative per la risoluzione preventiva e stragiudiziale della crisi, incentivando l’emersione precoce della crisi stessa, è stato profondamente modificato il concordato preventivo e sono state introdottenuove soluzioni concordatarie, tra cui quella degli accordi di ristrutturazione dei debiti. Con tali istituti si è voluto spingere l’imprenditore ad affrontare la crisi da subito, tentando di ridurre i costi e garantendo al contempo una tutela diretta al ceto creditorio.
Proprio per sostenere l’utilizzo dei nuovi istituti, il Legislatore è intervenuto poi, di recente, con il DL 78/2010 (conv. in L. 122/2010), attraverso l’introduzione della prededuzione per i finanziamenti erogati in attuazione di concordati preventivi o di accordi di ristrutturazione dei debiti e per i finanziamenti-ponte concessi ed erogati nella fase delle trattative. Inoltre, è stata prevista l’esenzione dai reati di bancarotta per i pagamenti e le operazioni compiute in esecuzione del concordato preventivo, degli accordi di ristrutturazione dei debiti e dei piani attestati di risanamento. Infine, è stato anticipato il blocco delle azioni esecutive e cautelari (art. 48 del DL 78/2010).
Dai dati relativi ai questionari inviati è emerso che i nuovi istituti, nonostante le ultime correzioni, presentano alcune inefficienzecausate soprattutto dalla presenza di ostacoli normativi, oltre che di resistenze culturali.
Quindi, risultano opportune – secondo Assonime – ulteriori modifiche alla legge fallimentare (RD 267/42), finalizzate, però, almiglioramento dell’apparato normativo già vigente per sviluppare le potenzialità della riforma non ancora sfruttate e i suoi principi ispiratori.
La normativa fallimentare va modificata
Ad esempio, nel concordato preventivo, sarebbe opportuno delimitare in modo chiaro gli ambiti di intervento del Tribunale circa la dichiarazione di inammissibilità della domanda di concordato, sul presupposto che tale istituto rappresenta uno strumento di composizione della crisi fondato sulla contrattazione privata tra le parti coinvolte.
Con riferimento alla procedura del fallimento, invece, sarebbe utile introdurre alcuni miglioramenti per il funzionamento del comitato dei creditori. Nelle proposte di modifica di Assonime figura anche quella di informatizzare le attività dei curatori, delle cancellerie e dei magistrati e di separare dal giudizio principale fallimentare la gestione del contenzioso civile endo-fallimentare, anche con il ricorso a riti speciali. Ciò allo scopo di contenere i tempi della procedura, principale fattore di dissipazione del valore dell’attivo aziendale e di un insoddisfacente pagamento dei creditori.
A garanzia, poi, di un buon funzionamento degli istituti civilistici previsti dalla legge, sarebbe da sostenere anche una riforma del diritto penale fallimentare.
Venendo, infine, agli accordi di ristrutturazione dei debiti, bisognerebbe incentivare l’erogazione di nuova finanza mediante la modifica della regola della prededuzione ex art. 182-quater del RD 267/42 (così come già modificato dal DL 78/2010), estendendone la disciplina anche ai finanziamenti concessi da intermediari comunitari ed eliminando il requisito dell’omologa come condizione della prededuzione.

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