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venerdì 13 aprile 2012

Illegittimo il demansionamento del lavoratore che rifiuta il trasferimento


Il rifiuto di un lavoratore ad essere trasferito, per contrazione di attività nella sede abituale, non può essere utilizzato dal datore di lavoro per giustificarne il demansionamento. Inoltre, non è sufficiente neppure l’eventuale consenso del lavoratore a svolgere mansioni inferiori, poiché tale provvedimento può essere giustificato solo in presenza di una reale situazione che renda concreta una prospettiva di licenziamento.
Questo è quanto ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 5780 di ieri, 12 aprile 2012.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado, con la quale veniva accolta la domanda di un lavoratore volta ad ottenere il riconoscimento dell’illegittimità del demansionamento subìto, nonché il diritto al risarcimento del relativo danno.
Per la Corte territoriale, la tesi datoriale del demansionamento per rifiuto del dipendente ad essere trasferito sarebbe stata valida solo in presenza di ragioni che possono legittimare un licenziamento; infatti, in tal caso, la previsione dell’art. 2103 c.c. – che tutela la professionalità del prestatore di lavoro, nonché il diritto a prestare l’attività lavorativa per la quale si è stati assunti, o si è successivamente svolta, vietandone l’adibizione a mansioni inferiori – potrebbe venire meno di fronte al maggior interesse dato dalla conservazione del posto di lavoro. Inoltre, i giudici di merito evidenziavano che non era sufficiente dimostrare che il lavoratore avesse prestato il consenso a svolgere mansioni inferiori, essendo necessario che l’unica alternativa al demansionamento fosse il licenziamento.
Ancora, la Corte territoriale osservava che il trasferimento, nel caso considerato, sarebbe stato legittimo a causa dellacontrazione dell’attività nella sede di lavoro abituale, ma il rifiuto – nella specie espresso preventivamente – del lavoratore non poteva essere addotto quale giustificazione per l’assegnazione a mansioni inferiori.
Contro questa sentenza, il datore di lavoro si rivolge alla Corte di Cassazione, sostenendo che il mancato esercizio del diritto a trasferire il lavoratore, previsto dall’art. 2103 c.c., non può integrare gli estremi dell’inadempimento, né può costituire un’ipotesi di condotta colposa tale da rendere il successivo demansionamento subìto dal lavoratore espressione di uninadempimento colpevole. Per il ricorrente, la misura della diligenza richiesta al datore di lavoro non può spingersi sino ad imporre un trasferimento unilaterale già rifiutato, poiché l’unico obbligo può consistere nell’offerta di un’alternativa e di altre mansioni. Secondo il datore di lavoro, non vi poteva essere inadempimento perché, attraverso l’offerta di mansioni equivalentipresso la sede di destinazione, la società aveva fatto quanto necessario per individuare soluzioni alternative al successivo demansionamento, dovuto dalla contrazione di attività nell’abituale sede di lavoro.
Provvedimento giustificabile da esigenze tecnico-organizzative
Per i giudici di legittimità, il ricorso non può essere accolto ed è meritevole di rigetto.
Secondo la Suprema Corte, le motivazioni proposte si fondano sul rilievo che il trasferimento del lavoratore sia una misura che ricade nella discrezionalità del datore e sia, come tale, esplicazione del potere di libera iniziativa concessa all’imprenditore nell’esercizio dell’impresa, essendo in potere dello stesso valutare se e in che misura una simile scelta sia necessaria sotto il profilo delle esigenze tecnico-organizzative. Tuttavia, la società, in presenza di una situazione aziendale che vedeva lacontrazione dell’attività nella sede di lavoro, ha ritenuto, per disporre il demansionamento, di prendere in esame il rifiuto preventivo espresso dal dipendente ad un eventuale trasferimento, mai formalizzato, e non la sussistenza o meno delle esigenze produttive, tecniche e organizzative che, invece, avrebbero giustificato tale provvedimento.

La Corte d’Appello ha dunque deciso correttamente, seguendo un consolidato orientamento giurisprudenzale di legittimità, secondo cui soltanto l’esistenza di una reale situazione aziendale che renda concreta una prospettiva di licenziamento e l’accettazione delle diverse mansioni in deroga all’art. 2103 c.c. possono rendere inapplicabile la tutela prevista dalla citata norma, consentendo la retrocessione dalla precedente posizione professionale.
 

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